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“La vetta non è il traguardo, ma solo un punto di passaggio”: nel silenzio della montagna la verità sulla vita

Simone Moro, Hans Kammerlander e Krzysztof Wielicki sul palco di “Alpinismo di Vita”, l’evento voluto da DF Sport Specialist. Un racconto corale sull’alta quota come scuola di consapevolezza, misura e ritorno.

“La vetta non è il traguardo, ma solo un punto di passaggio”. Così, con la forza semplice di una verità conquistata in alta quota, Simone Moro, uno dei più grandi alpinisti contemporanei, ha rovesciato la retorica dell’impresa alpinistica durante la serata-eventoAlpinismo di Vita”, organizzata da DF Sport Specialist e andata in scena davanti a oltre 2.600 persone a Barzanò, in provincia di Lecco. Sul palco, insieme a lui, due giganti dell’Himalaya: Krzysztof Wielicki e Hans Kammerlander.

A voler fortemente questa serata è stato Sergio Longoni, fondatore di DF Sport Specialist, che ha voluto offrire al pubblico molto più di un evento: un’esperienza di senso, un invito a guardare la montagna come luogo di verità e introspezione. Una celebrazione, sì, ma anche una lezione di vita.

Tre leggende dell’alpinismo e una lezione di vita oltre la vetta

Quella andata in scena non è stata solo una celebrazione della montagna, ma una riflessione corale sul senso profondo dell’alpinismo, sulle scelte che definiscono un uomo e sulle utopie giovanili che, se ben guidate, possono diventare futuro. In un tempo in cui tutto sembra consumarsi nella velocità di un post, Moro ha riportato il pubblico alla lentezza delle salite vere, dove ogni passo richiede ascolto, pazienza e responsabilità.

“Alpinismo di Vita” - La montagna che insegna a tornare

Simone Moro e il rifiuto dell’illusione della cima

“Se identifichi la vetta come traguardo,” ha spiegato l’alpinista bergamasco, “rischi di dare tutto per raggiungerla e poi morire nel tentativo di tornare. Il vero traguardo è completare il loop, tornare al punto di partenza. Solo allora hai chiuso il cerchio”.

Non è solo questione di tecnica o esperienza, ma di visione del mondo. Di consapevolezza che l’alpinismo, come la vita, è un percorso. E che i rischi vanno accettati, non rincorsi. Una maturità che si conquista sopravvivendo “all’irruenza dei vent’anni”, quel tempo in cui, come racconta Moro, “ti senti immortale, abbagliato dal sogno e perdi la percezione del pericolo”. Un tempo che, se non si trovano buoni maestri, può travolgere.

Per questo l’importanza della trasmissione, della parola che racconta e ammonisce, della comunità che ascolta. E anche dei social, se usati con responsabilità. “Io ho un milione di follower,” racconta Moro, “e so che non sono solo appassionati di montagna. Ho la fortuna e la responsabilità di parlare a molti, anche a chi della montagna non sa nulla. Ma se gliela racconto solo come rischio, bufera e fatica, scelgono altro. Se invece creo un linguaggio che emoziona e avvicina, allora l’alpinismo può avere un futuro anche lì”.

Lui, che ha fatto della rinuncia una virtù – “Un grande alpinista mi disse: leggi Messner, il titolo del suo libro non è ‘Il re degli 8000’ ma ‘Sopravvissuto’” – oggi incarna una forma di eroismo diversa. Non quella dell’epica estrema, ma quella della scelta ponderata, della narrazione vera, del gesto che non ha bisogno di essere amplificato per essere grande.

A chi sogna le cime, Moro non dice “corri”, ma “preparati”. Con la testa, con il cuore, con i piedi pronti per affrontare il percorso. Perché la montagna, come la vita, è di chi sa tornare. Non solo salire.

Hans Kammerlander: la poesia del gesto essenziale

Poi, sul palco, Hans Kammerlander. Il suo alpinismo è come la sua voce: schivo, essenziale, incrollabile. Nato in un maso a 1.600 metri senza luce né acqua corrente, costruiva gli sci con il padre e saltava la scuola per salire le cime sopra casa. “Quella prima montagna a oltre 3mila metri, scalata a otto anni, è stata un sogno. Da lì ho capito che il mio sentiero era quello”.

Il sogno è diventato impresa con la leggendaria salita dell’Everest da Nord in sole 16 ore e 45 minuti – la più veloce della storia – e la prima discesa con gli sci dalla vetta. Nessun bivacco, uno zaino da 5 kg, un litro di tè. “Non volevo fermarmi. I bivacchi in quota non sono mai belli. Meglio salire e scendere, leggeri e veloci”.

Ma Hans è anche l’uomo che ha fatto il concatenamento Gasherbrum I e II in solitaria, senza ossigeno, in otto giorni, tra tempeste e creste ghiacciate. “La montagna era nostra. Eravamo soli. Era un’altra epoca, ma il senso resta: fare qualcosa che nessuno ha mai fatto. E farlo con rispetto”.

“Alpinismo di Vita” - La montagna che insegna a tornare

 Krzysztof Wielicki: il guerriero del ghiaccio

Infine, Krzysztof Wielicki. Primo a salire l’Everest d’inverno. Primo a compiere invernali sul K2, il Lhotse, il Kanchenjunga. “Quando noi polacchi abbiamo iniziato a salire in inverno, altri ci hanno seguito. In sei anni abbiamo fatto sei primi ottomila d’inverno. Eravamo i guerrieri del ghiaccio”.

Il suo alpinismo non è mai stato solitario, almeno non all’inizio. “Mai partito da casa da solo. Sempre con gli amici della mia sezione del Club Alpino Polacco. Ma durante le spedizioni, quando restava tempo, sentivo la fame di emozione, di adrenalina. Allora salivo da solo, per 20 o 24 ore, senza dire niente”.

Il racconto del Nanga Parbat è un capolavoro. Doveva essere un’ascensione di gruppo, ma all’arrivo Wielicki scoprì che la spedizione era stata annullata. Era solo. Nessun compagno. Nessuna cordata. E il tempo perfetto. “Ho cercato una scusa per non salire. Ma ogni giorno c’era il sole. Così sono andato. Senza sapere dove, solo sapendo che dovevo salire”.

Raggiunta la vetta, portò giù pietre e un chiodo come prova. Anni dopo, mostrò un chiodo trovato in cima durante una conferenza a Trento. Un alpinista austriaco tra il pubblico si alzò: “È mio”. Era la prova definitiva. Ma, dice Wielicki, “nessuno della mia sezione mi chiese mai una prova. Mi hanno solo chiesto: “Com’era il tempo?”

Anche sul Lhotse, con due vertebre fratturate e contro ogni parere medico, salì da solo da 7.300 metri. E trovò la forza di scendere solo perché, nel buio, vide “un puntino nero che veniva verso di me. Non poteva aiutarmi, ma il solo sapere che c’era qualcuno, mi ha dato la forza per andare avanti.”

La montagna come maestra

Tre stili, una sola montagna. Non quella delle cime, ma quella delle scelte. La montagna che si fa maestra, misura, ritorno.
Perché alla fine, come dice Moro, “la vetta è solo un passaggio. Il traguardo vero, quello che conta davvero, è tornare. E sapere perché sei salito.”

Leggi anche Sergio Longoni: un impero costruito sulla passione per la montagna

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