La resa dell’acciaieria Azovstal apre nuovi scenari. Putin potrebbe intensificare il conflitto prima dell’arrivo dei nuovi armamenti a Kiev mentre la compattezza del fronte europeo vacilla.
Ogni guerra, anche quelle che tutti noi abbiamo ripercorso attraverso i libri di storia, ha battaglie o imprese che sono state spettacolarizzate sino a farle rivivere attraverso rappresentazioni postume.
Il conflitto russo ucraino non avrà bisogno di essere rivisitato. Esso, infatti, ci viene quotidianamente somministrato attraverso la cronistoria live-streaming sui social network.
Questa sovraesposizione ha sì il vantaggio – quando non filtrata – di farci pienamente comprendere la drammaticità degli eventi, ma ha anche lo svantaggio di non darci il tempo di poter elaborare un’analisi ragionata degli scenari futuri.
La battaglia di Mariupol
La battaglia di Mariupol e, nello specifico, l’assedio dello stabilimento Azovstal è stata nelle ultime settimane simbolo di questa nuova dimensione nei conflitti armati. Focus su individualità specifiche – il combattente dal braccio bionico o il miliziano fotografo – e poco sull’eterogeneità di quello che da una parte e dall’altra questo evento rappresenti anche in chiave futura.
Tralasciando quindi l’analisi di quello che è stato, vorremmo soffermarci brevemente su quello che sarà il dopo, aprendo ad alcuni percorsi possibili del post-Mariupol.
Arrivata in netto ritardo rispetto alla tabella di marcia, questa conquista rimane fondamentale per i russi. In primis la resa dei miliziani del battaglione Azov chiude almeno parzialmente una pagina, offrendo a Mosca una affermazione sia ideologica – la parziale “denazificazione”, secondo il linguaggio utilizzato da Putin – sia militare.
Gli scenari delle prossime settimane
Uno scenario possibile potrebbe essere quello di una nuova intensificazione del conflitto nei prossimi giorni, prima dell’arrivo dei nuovi armamenti occidentali a Kiev. Mosca potrebbe rilanciare per cercare di avanzare ulteriormente verso quello che sembrava un obiettivo plausibile all’inizio del conflitto: raggiungere i confini amministrativi del Donbass.
Se questa ipotesi dovesse verificarsi, il Cremlino avrebbe tutto l’interesse a spingere – in parallelo – per la riattivazione dei negoziati fermi ormai all’incontro di Istanbul. Da qui non scaturirebbe una pace, ma solo le basi per una conferenza internazionale più ampia da realizzare nel lungo periodo.
Il conflitto quindi si trasformerebbe in una cosiddetta “guerra di consolidamento” in modo da tenere più margine possibile per i negoziati finali.
Le intenzioni di Kiev
Questa ipotesi, però, va in contrasto con quelle che, legittimamente, sarebbero le intenzioni di Kiev. Il presidente Ucraino, forte del sostegno internazionale ricevuto sino ad ora, ha espressamente rigettato la possibilità di negoziare su concessioni territoriali che limiterebbero la sovranità ucraina e ha posto come unico obiettivo quello di vincere riappropriandosi di tutte le zone occupate.
Questo significherebbe altre settimane, se non mesi, di incessanti scontri. E anche tutto quello che ne seguirebbe in termini di costi umani e non solo.
Questa eventualità si scontra con le divisioni interne alla comunità internazionale, soprattutto in Europa. Il costo delle sanzioni imposte a Mosca si sta, infatti, rivelando più pesante del previsto per l’Unione Europea, con effetti differenziati da Paese a Paese.
Il fronte europeo
L’ultimo viaggio di Mario Draghi a Washington non è servito solo a dimostrare quanto la politica estera italiana sia ritornata verso un atlantismo più convinto, ma è stato un modo per condividere impressioni e fratture in seno all’UE.
Fratture che emergono anche su quali e quante forniture di armi inviare a Kiev, come dimostra l’assenza di un accordo sulla triangolazione di carri armati tra Germania, Polonia e Ucraina.
Questo e altri fattori – non ultimo il mancato consenso unanime in seno alla NATO sull’ingresso di Svezia e Finlandia – potrebbero indurre i Paesi europei a fare pressione su Volodymyr Zelensky affinché ritorni al tavolo delle trattative facendo concessioni pesanti a Mosca.
L’Europa è a un bivio: abbandonare il primato della politica e i suoi principi in cambio di un’economia meno fragile o rischiare una lenta ma profonda disintegrazione per il bene ultimo della democrazia su cui è fondata.