Gli incidenti che si sono verificati nella regione a Nord del Paese sono il segnale di una situazione sempre più incandescente, che risente del conflitto in Ucraina e di frizioni storiche in quell’area.
Kosovo. L’analisi geopolitica ci ha insegnato come una serie di attori internazionali abbiano bisogno di stati di tensione permanenti congelati, in modo da garantirsi la sopravvivenza politica a livello internazionale. Essi vengono riaccesi attraverso una duplicità di dinamiche che potremmo qui definire endogene – politica interna – ed esogene – stimolate da soggetti terzi indirettamente coinvolti, ma che portano un vantaggio ad una delle parti in causa.
In questo framework metodologico si inseriscono anche i Balcani, regione storicamente predisposta a frammentazione e, conseguentemente, al conflitto.
Gli effetti del conflitto in Ucraina
Nelle scorse settimane, sempre su queste pagine, avevamo già parlato di come fattori endogeni – il ri-bilanciamento di alcune forze politiche all’interno della regione – e fattori esogeni – il conflitto in Ucraina – avrebbero potuto provocare la detonazione della polveriera balcanica.
Nello specifico avevamo analizzato come il prolungarsi del conflitto tra Mosca e Kiev e l’equilibrio militare-strategico sul campo – l’assenza di un vincitore di fatto – avrebbero potuto costituire l’innesco di una nuova crisi in Bosnia i Herzegovina e Kosovo.
Lasciando ad un altro commento l’attuale situazione in BiH, vorremmo qui di seguito soffermarci sul caso/crisi del Kosovo.
Kosovo: le mancanze della comunità internazionale
Gli incidenti verificatisi nella serata di domenica nella regione a Nord del Paese trovano fondamento in una serie di elementi che qui richiameremo sinteticamente. La conformazione multinazionale e multietnica del Paese e la concentrazione della minoranza serba nelle provincie settentrionali; l’incapacità della comunità internazionale UE e ONU di creare un sistema di gestione politico-amministrativo meno burocratizzato e più incline alla geografia politica del territorio; la necessità delle parti in causa di incrementare il loro potere contrattuale – aiuti – nei confronti la comunità internazionale intesa come “donors”.
Nello specifico, l’elemento scatenante è stato la nuova legge emanata dal Governo di Pristina già lo scorso anno, la quale vieta ai suoi cittadini l’utilizzo e la circolazione con documenti di identità e targhe automobilistiche straniere. Questa norma va a colpire prevalentemente i 50mila serbi residenti nelle provincie del Nord, i quali non hanno mai riconosciuto la piena autorità e sovranità del Governo centrale.
Dopo un rinvio richiesto lo scorso 30 settembre dalla Commissione Europea, impegnatasi formalmente attraverso una task force a risolvere la questione, la sua entrata in vigore era stata prevista per lunedì 1 Agosto.
I segnali che arrivano da Belgrado
Belgrado già da tempo accusava il governo kosovaro di forti discriminazioni e oppressione verso la propria minoranza. Lo stesso presidente Aleksandar Vucič, durante la sua ultima campagna elettorale, non ha nascosto le proprie intenzioni di intervenire se la situazione si fosse resa insostenibile.
Ed è proprio la paura di questo intervento assieme alle barricate per le strade nelle zone di confine con la Serbia che hanno portato Pristina a chiudere alcuni valichi di frontiera e mettere in stato di allerta le forze speciali e di polizia.
Che un pericolo di scontro militare fosse imminente, lo si poteva comprendere dall’intenzione di Vucič di inviare un messaggio alla nazione, azione che ha messo in allerta non solo Pristina, ma anche il comando unificato KFOR (contingente NATO di 3.885 unità), che opera nel Paese su mandato ONU.
Nessuna soluzione, ma solo un rinvio
La situazione è tornata ad uno stato di normalità solo dopo una notte di mediazioni tra il capo di stato maggiore serbo – e presumibilmente anche lo stesso presidente – e l’ambasciatore statunitense, il quale è riuscito a far accettare al primo ministro Albin Kurti uno slittamento dell’entrata in vigore al primo settembre.
È evidente a tutti gli attori in campo come questa soluzione posticipi il problema di qualche settimana senza risolverlo completamente, facendo il gioco di tutte quelle forze che traggono un vantaggio dalla forte instabilità nei Balcani.
Crisi in Kosovo: il ruolo dell’Unione Europea
Sia Serbia che Kosovo puntano il dito contro l’UE. La prima l’accusa di favorire, se non incentivare, una serie di violazioni di diritti umani contro i cittadini di nazionalità serba. I secondo, invece, reclama il diritto ad esercitare la piena sovranità e autorità nei confini del Paese, mal digerendo deroghe e rallentamenti nell’esecuzione di alcune norme emanate negli anni.
Senza un impegno internazionale che coinvolga soggetti che potrebbero sembrare scomodi politicamente a livello europeo, non sarà possibile ridisegnare una nuova road map di pacificazione permanente dei Balcani. I nazionalismi trovano la propria linfa nelle crisi, e questi stanno fortemente tornando anche nei Paesi della sponda Est dell’Adriatico.
Non solo Serbia, e Kosovo o BiH, ma frizioni sempre maggiori si registrano in altri Paesi come la Macedonia del Nord e la Bulgaria sempre su questioni riguardanti le minoranze.
Il rischio di un nuovo conflitto è dietro le porte, senza che i ricordi di quelli precedenti siano svaniti dalla nostra memoria.