Dapprima è arrivata la peste, poi il Verdicchio bianco e infine, più in là, il Lugana. Perché prima della bonifica della selva lucana e della coltivazione della vite nel XVII secolo, quell’uva ha visto e conosciuto molte altre genti e ha visitato molti altri luoghi, giacché solo tempo dopo è stata capace di mettere radici tra le province di Brescia e Verona.
La morte nera non ha guardato in faccia nessuno: ha portato via quasi tutti. Tra il 1347 e il 1352 d.c., in soli cinque anni, si è portata via almeno 20 milioni di persone, vale a dire un terzo della popolazione europea di allora. E non si è fermata. Perché poi è diventata endemica ed è tornata a reclamare quanto lasciato in vita, con cicli decennali, per i successivi tre secoli almeno.
La peste nera e la scaramanzia
Vivere o morire in quel periodo è stato come sfidare la sorte: testa o croce? La peste non curata a dovere ha avuto un tasso di mortalità pari al 50% e la scienza medica di allora, che non conosceva il concetto di contagio, ha utilizzato più che altro pratiche scaramantiche che avranno sì portato alla salvezza delle anime, ma assieme alla tumulazione dei corpi.
In tale contesto, tra le regioni più colpite troviamo le Marche con la provincia di Macerata, che ha visto nel corso del XIV secolo la moria di quasi tre quarti della popolazione. Durante il corso del XIV – XV secolo, invero, tutta la regione è stata funestata da 36 focolai di peste.
Da Verona a Jesi: migrazione verso le Marche
Ogni volta che sono accaduti fatti di così ampia portata il dramma maggiore non è mai stato quello di piangere i morti, perché il vero problema è sempre stato quello di capire come dare da mangiare ai vivi. La morte, assieme alle lacrime, portava via anche le braccia da lavoro. E i campi brulli, non coltivati, non hanno mai offerto cibo ai pochi rimasti.
Come spesso è accaduto nella storia di Italia con i flussi migratori, in questo caso su invito del Comune di Jesi nel 1470, gli agricoltori veneti, nello specifico veronesi, hanno accolto la richiesta di aiuto e così hanno lasciato le loro terre per spostarsi nelle Marche per dare forza, lavoro e contribuire alla ripopolazione della regione.
Per consuetudine veneta, poi, ogni migrazione che si rispetti ha sempre portato con sé le uve dei luoghi di origine, perché il rispetto della tradizione vale qualsiasi tipo di sacrificio e copre qualsivoglia distanza. Così quelle genti, che non hanno mai voluto fare a meno delle loro uve e del loro vino, hanno portato nelle terre marchigiane le prime coltivazioni dell’uva di Trebbiano di Soave (o Trebbiano di Lugana).
Trebbiano di Lugana e Verdicchio
Ecco allora che quell’uva lì, impiantata apparentemente distante da casa, si è trovata così bene nell’ambiente marchigiano da acquisire le specifiche caratteristiche del territorio. E ciò l’ha resa unica, mentre il tempo l’ha resa autoctona di quei luoghi. Il vino oggi prodotto con l’uva Verdicchio ha acquisito un’identità tale da essere certamente riconoscibile tra tutti gli altri vini per le specifiche caratteristiche organolettiche che lo rendono distinguibile in mezzo a tanti.
Questo vino, vinificato in purezza come avviene nelle Marche, è capace di dare un vino dal colore giallo paglierino, con i tipici riflessi verdognoli anche in piena maturazione, la cui cifra stilistica è una grande sapidità capace di accompagnare il palato fino a farlo incontrare con un finale di mandorla amara.
La selva lucana e l’incontro tra Attila e papa Leone I
Prima di continuare su questo punto, però, è doveroso fare un piccolo salto indietro al 1400.
Come detto, nel 1400 la selva lucana, che si trovava nella parte meridionale del lago di Garda, è stata descritta come un bosco acquitrinoso, buono per coltivare il nulla e buono per farci delle grandi, magari epiche battaglie. Si narra, infatti, che in quei posti nel 452 d.c. ci fu l’incontro tra Attila e papa Leone I, nel corso del quale quest’ultimo avrebbe dissuaso il barbaro dai propositi bellicosi di invasione.
In ogni caso, al di là di ciò che si racconta, quella selva lucana allora incapace di accogliere qualsiasi tipo di coltivazione, per cambiare indirizzo richiedeva a una profonda opera di bonifica. E così, ancora una volta, la popolazione veneta, su incarico della Serenissima Repubblica di Venezia, venne chiamata a dare rimedio a quelle terre zuppe di acqua e sangue.
La bonifica delle paludi
Il lavoro di bonifica ha richiesto molti anni, ed è stato definitivamente terminato a cavallo della Seconda guerra mondiale, perché “la Lugana” è rimasta in parte paludosa e ricca di canneti fino ad allora.
Tuttavia, nelle “Memoria Bresciane” scritte da Ottavio Rossi nel 1616 si può già leggere come nel corso del XVII “tra Rivoltella e Pozzolengo in un sito scomodo e basso rimoto e disabitato si ritrova la fangosa Valle di Lugana, abitata da parecchi anni in qua, perché già soleva essere un bosco orridissimo; qui al dispetto quasi della natura di questi gessi e di questi fanghi, vi si generan viti generose, che abbondano di vino gagliardo e grosso s’è negro, ma gagliardo e soave s’è bianco e fatto con artificio”
In quelle terre, che ora possiamo esattamente individuare nelle sponde del Lago di Garda, poi a salire verso i primi rilievi collinari, da Sirmione, Desenzano, Lonato, Pozzolengo e Peschiera fin verso San Martino della Battaglia, oggi si trova la zona della Doc Lugana e l’uva che viene coltivata, non a caso, è il Trebbiano di Soave, lo stesso uvaggio allora portato nelle Marche e che ora, dopo le bonifiche volute nel 1400 dalla Serenissima, ritroviamo in questa zona. Localmente, poi, con grande orgoglio quest’uva è chiamata con il nome di Trebbiano di Lugana o Turbiana.
La nascita della denominazione Lugana
La denominazione Lugana, che è transregionale in quanto ricade nelle province di Brescia e Verona, è stata anche una delle prime a essere riconosciute in Italia già nel lontano 1967. E quel vino, oggi, per potersi fregiare di quella denominazione deve essere fatto con almeno il 90% delle uve di Trebbiano di Lugana.
Versato nel bicchiere il Lugana ha un colore giallo paglierino, che col trascorrere del tempo assume riflessi dorati. Presenta un corredo aromatico ricco di profumi fruttati, agrumati, con cenni di frutta tropicale. In bocca è capace di regalare grande freschezza, mineralità, unite a un bouquet armonioso con un finale sapido.
Il fil rouge che collega vitigni apparentemente lontani
Ritornando al punto in cui ci eravamo fermati, vale a dire all’assaggio del Verdicchio, ora, dopo aver anche assaggiato il Lugana, appare davvero difficile credere che possano avere qualsivoglia tipo di parentela, tant’è che è anche plausibile ritenere sbagliato il racconto fatto.
Per fortuna, a dare manforte alla narrazione c’è la scienza: le più recenti ricerche ampeleografiche hanno infatti individuato il fil rouge che accomuna mondi organoletticamente molto distanti.
Dall’analisi del DNA è emerso con chiarezza che il Verdicchio bianco ha la medesima identità del vitigno Trebbiano di Soave o del localmente detto Trebbiano di Lugana. E infatti, non a caso, nel Catalogo Nazionale delle Varietà di Vite il Trebbiano di Soave, iscritto al numero 239, può avere quali sinonimi, o essere altrimenti detto Verdicchio bianco, Turbiana o Trebbiano di Lugana e a sua volta, in modo speculare e circolare, il Verdicchio Bianco, iscritto al numero 254, ha quali sinonimi e può essere altrimenti chiamato Trebbiano di Lugana o Trebbiano di Soave (a seconda del luogo di coltivazione può anche essere chiamato anche Verdello, Verduschia, Peverella, ma questa è un’altra vicenda ancora).
Il prodigioso incontro tra vite e territorio
Nella storia di questi vini, in definitiva, è interessante osservare e cogliere il prodigio del territorio italiano quando incontra e sposa la vite.
Sebbene abbia la medesima identità, l’uva coltivata nei luoghi del Verdicchio e del Lugana si traveste di meraviglia regalando dal punto di vista organolettico vini completamente differenti. Ciascuno di essi è la migliore espressione di quel territorio nel momento in cui la terra abbraccia la vite. Ecco allora che, in definitiva, in tale contesto il vino è un regalo che ci viene fatto dalle tradizioni, dalle usanze delle genti che hanno contribuito alla costruzione di quel posto meraviglioso che oggi tutti chiamano Italia.
Guarda House of Wine e la puntata dedicata al Lugana DOC Orestilla prodotto da Montonale.